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Reg. Stampa num.22 del Tribunale Ordinario di Torino - 11 Marzo 2011
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Il romanzo criminale chiamato Risorgimento
Domani ricorre il 152° anniversario della strage di Torino
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Domani ricorre il 152° anniversario della strage compiuta dallo Stato a Torino il 21 e il 22 settembre del 1864. Cittadini inermi si trovavano in piazza san Carlo per protestare contro il trasferimento della capitale del regno a Firenze, o solamente di passaggio, senza coltivar alcun intento protestatario e tantomeno violento.

La decisione, che determinò la crisi economica senza precedenti a Torino, causa il trasferimento della corte, ministeri e sedi diplomatiche, fu assunta in gran segreto dal governo presieduto dal bolognese Minghetti e caldeggiata da Ministri toscani. Pare che anche il re fosse tenuto all’oscuro della decisione poi concordata con Napoleone III°.

Il Regio esercito e i carabinieri intervennero con ripetute cariche, per disperdere i presenti. Si sparò a livello d’uomo massacrando 55 persone inermi e causando oltre 133 feriti.

Quest’anno, almeno secondo il calendario di attività settimanali diffuso dalla civica amministrazione, non ci sarà neppure la deposizione di una corona da parte del Comune, con i soliti discorsi rituali.

Il ricordo da parte di coloro che vogliono tenere viva la memoria proiettando la storia sul presente e il divenire, è già stato fatto nel pomeriggio dell’11 settembre. Il Movimento Piemonte Stato non ha solamente raccolto i simpatizzanti e militanti Piemontesi, bensì i discendenti degli antichi Stati dei Savoia che a Nizza ed in Savoia ancor oggi mantengono vivo il ricordo di quando, Nizza e Chambery facevano riferimenti a Torino Capitale, per trecento anni sede del ducato di Savoia e poi del regno di Sardegna.


Le scelte politiche e istituzionali calate dall’alto, gli accordi diplomatici sanciti ignorando la popolazione non riescono a sopire il sentimento d’identità e d’indipendenza dei popoli.

La ricorrenza c’invita ad inserirci in recenti e meno recenti discussioni nel merito se il Risorgimento fu nel suo insieme un’impresa non priva di aspetti non solo «illegali» ma violenti, terroristici e persino criminali in senso stretto? La parola agli storici del nostro passato prossimo. I quali, tuttavia, anche quando sono uniti dalla stessa fede laica, democratica e progressista, su questo punto sono divisi.

Ricordiamo, tra le altre, l’asprezza della controversia esplosa negli anni scorsi sulle pagine di un importate giornale a tiratura nazionale, dove Giuseppe Galasso ha severamente bacchettato Ernesto Galli Della Loggia, che, discorrendo in un editoriale degli umori terroristici della nostra sinistra, aveva osato osservare che essi hanno le loro prime radici, appunto, nello spirito del nostro Risorgimento.
E’ indubbiamente una querelle’ appetitosa che, anche in un’epoca di conformismo potrebbe attirare altri autorevoli interlocutori.


Oltre alla strage di Torino, partita direttamente dalla Stato, varrebbe la pena ritornare alla vicenda che vedeva contrapposti in modo specifico e puntuale i due studiosi.

Dove emergerebbe la  presenza del fattore criminale?
È la famosa, sventuratissima «spedizione» di Carlo Pisacane. Quella che fu immortalata dai celebri versi di Luigi Mercantini («Eran trecento, eran giovani e forti / e sono morti»).

Che , esattamente il 28 giugno 1857, trovò il suo tragico epilogo a Sapri: Pisacane e i suoi compagni – una manciata di «patrioti», alla quale si erano aggiunti due o trecento ergastolani liberati dal penitenziario di Ponza la mattina prima dello sbarco a Sapri, furono massacrati dalla popolazione locale: contadini e pescatori assolutamente sordi all’appello della presunta Libertà.

Ma che conobbe forse il suo momento più leggendario proprio nell’avventura ponzese, che risulta fondamentale per comprendere i veri motivi del fallimento politico di quell’impresa’ e le vere cause della violenta risposta della popolazione saprese all’arrivo di quei guerriglieri.
Quel momento fu il gesto con cui Pisacane e i suoi seguaci, dopo aver fatto scalo a Ponza sperando di indurre la gioventù dell’isola ad associarsi alla spedizione, fallito quel tentativo, prima di riprendere il largo verso Sapri, aprirono i cancelli dell’’ergastolo locale, che allora ospitava 2.000 delinquenti comuni, e arruolarono due o trecento forzati disposti a seguirli con l'unico scopo di darsela a gambe subito dopo aver raggiunto il continente. Questa è storia, non poesia.

Quale soave angioletto buonista impedisce dunque, ancora oggi, a tanti nostri storici, di ammettere che la nostra epopea risorgimentale, anche e forse soprattutto nei suoi momenti più leggendari, non ignorò il fascino del crimine?

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